Punibile la coltivazione di cannabis anche se tale da produrre appena sei dosi
Condanna definitiva per un uomo, beccato a gestire, in un palazzo, una sorta di serra artigianale finalizzata alla coltivazione di cannabis

Basso principio attivo e pochissime dosi ricavabili: comunque punibile la coltivazione di cannabis. Questa la presa di posizione dei giudici (sentenza numero 12709 del 2 aprile 2025 della Cassazione), i quali, nel caso specifico concernente una coltivazione di marijuana – con centosettantadue piantine – allestita in un box all’interno di un palazzo, hanno ritenuto impossibile parlare di fatto penalmente irrilevante, pur a fronte di appena sei dosi ricavabili e di un principio attivo pari a 0,148.
Scenario della vicenda è la città di Milano. A dare il ‘la’ al procedimento giudiziario è un blitz compiuto dalle forze dell’ordine in un box – di proprietà di una donna e dato in uso ad un uomo – all’interno di un palazzo, blitz che porta alla scoperta di una specie di serra artigianale finalizzata alla coltivazione di cannabis. Nello specifico, le forze dell’ordine rinvengono oltre centosettanta piantine di marijuana, un sistema di areazione, diverse lampade, un tavolo con forbici e coltellini e scaffali contenenti altro materiale per la coltivazione.
Successivamente, grazie ai risultati di alcune analisi chimiche, viene certificata la natura della sostanza stupefacente, avente un peso netto di 185 grammi, con una quantità di principio attivo pari 0,148 e con un numero di dosi ricavabili pari a 5,9.
A fronte di tale quadro, l’uomo a cui era stato affidato il box viene ritenuto colpevole di produzione e detenzione illecite di sostanza stupefacente. Per i giudici di Appello, però, la condotta accertata è da ritenere non grave, visto il modesto quantitativo di sostanza stupefacente ricavabile.
Per la difesa, però, il riconoscimento della non particolare rilevanza della coltivazione portata avanti dall’uomo sotto processo è propedeutico all’applicazione della causa di non punibilità. Secondo il legale, difatti, vi sono elementi per ritenere inoffensiva la condotta tenuta dall’uomo, avendo avuto essa ad oggetto delle mere sperimentazioni specifiche – funzionali allo studio e frutto di una volontà imprenditoriale – riguardanti la canapa da fibra e non un uso personale della sostanza. E ciò anche in considerazione della scarsità del principio attivo ricavabile dalle piantine, quantificato nello 0,08%, e della conseguente inidoneità del prodotto ad assumere efficacia drogante. Sempre senza dimenticare, poi, secondo il legale, la modestia del dato quantitativo e la conseguente lieve entità del danno o del pericolo in connessione con la coltivazione.
Per i magistrati di Cassazione, però, nonostante tutte le osservazioni proposte dalla difesa, è impossibile ipotizzare l’irrilevanza penale della condotta tenuta dall’uomo.
Su questo fronte, la difesa ha fatto riferimento, come detto, alla modestissima percentuale di principio attivo riscontrato nella sostanza, all’esito delle analisi chimiche, e al limitato numero di dosi ricavabili, ma, ribattono i giudici di terzo grado, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo. In conclusione, possono rilevare, al fine di escludere la punibilità: un’attuale inadeguata modalità di coltivazione, da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale; un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto, in principio attivo, troppo povero per la utile destinazione all’uso quale droga.
Per maggiore chiarezza, poi, i magistrati richiamano il principio secondo cui il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Debbono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Ragionando in questa ottica, perciò, checché ne dica la difesa, è evidente anche secondo i magistrati di Cassazione la rilevanza penale della condotta oggetto del processo. Ciò perché, a fronte del modesto principio attivo e del limitato quantitativo di prodotto ricavabile, si deve tenere conto di dettagli ulteriori, rappresentati, chiosano i giudici, dall’elevato numero di piante, dalla predisposizione di un sistema di areazione, con collocazione di diverse lampade da tavolo, e dalla presenza di scaffali contenenti altro materiale utilizzabile per la coltivazione.